Avrei voluto esordire su questo spazio scrivendo qualcosa sull’astensionismo, fenomeno che guardo con simpatia e incoraggiamento (e prima o poi vi spiegherò perché). Ma dopo aver dato un’occhiata alle percentuali di affluenza in Sicilia, esattamente identiche alle politiche di febbraio, ritengo che per scrivere della cosa ci sia bisogno ancora di qualche indagine.
Così preferisco partire da qui: http://www.ilfoglio.it/soloqui/18604.
Un lunghissimo articolo, scritto da Claudio Cerasa, al momento il retroscenista per antonomasia, renziano di destra, una categoria per la quale mi auspico una Norimberga prima o poi, molto esperto dei peggiori guai del Partito Democratico e che seguo su twitter solo in quanto interista.
Una lunga trattazione su un processo, iniziato sotto banco già da qualche mese e che sta diventando sempre più evidente, che si presta a interpretazioni manichee.
Traccheggio perché ho paura di scriverlo.
D’Alema è diventato renziano.
(pure Alessandra Moretti, pare; chissà cosa pensano le donne renziane per cui era un oggetto di dileggio irresistibile, ma non divaghiamo).
Inutile stare qua a spiegare le ragioni di questo avvicinamento (le potete leggere nell’articolo di sopra): fatto sta che ora il rottamato sembra essersi convinto che ci vuole leadership, telegenia, Marchionne, Briatore eccetera eccetera, e il rottamatore sembra essere così contento della cosa (quando diceva le stesse cose su di lui Fioroni non lo era) da permettersi di usare le stesse parole di Baffino per sparare sui cosiddetti avversari interni turchi (in realtà più ne conosco e più ho dubbi sul fatto che esista effettivamente una cosa chiamata giovani turchi, ma anche questo meriterebbe un post apposito).
Invero, tutta l’intervista è imbottita di strizzatine d’occhio al lider maximo (il metodo è la tradizionale strizzatina d’occhio renziana, discreta come una mano morta su un pullman Cotral direzione Fregene alle undici e mezza di sera e completamente vuoto), ma considero particolarmente significativa proprio quella battuta su Orfini: è un gesto quasi intimo, è come parlare a una ragazza usando la prima persona plurale, c’è sfrontatezza e consapevolezza e se non si ha qualche certezza la cosa può andare anche a finire molto male.
[tra l’altro Orfini, che immagino in questi giorni sia in preda di atroci sofferenze, ha scritto una cosa molto interessante in cui insieme a ottimi spunti emerge anche che un partito non deve essere solo “amministratore”, come quello di Fabrizio Barca, ma deve anche essere in grado di tosare perfettamente un prato all’inglese]
Diciamo che, dal mio punto di vista, le poche cose positive di questo avvicinamento è che tutti sembrano avercela con Fioroni e Franceschini (dei bersaniani non parlo perché sono una cosa che non esiste in natura, anche se a quanto pare hanno tirato fuori un documento pure loro e la tesi centrale sembra condivisibile), che il governo Letta non mangerà il panettone (deo gratias) e che, nell’atomismo emerso dopo la tragedia nazionale della rielezione di Napolitano, almeno emergono delle linee riconoscibili che trascendono la surreale dicotomia conservazione/rinnovamento da cui siamo stati abbondantemente irretiti negli ultimi mesi.
In particolare, questa per me è una soddisfazione personale. Non ho mai votato pd in vita mia, neanche alle primarie, e a casa mia parlare di D’Alema è stato sempre più o meno come parlare di Berlusconi (conoscete la storia della privatizzazione Telecom?). Ciononostante, non è che semplicemente non sono mai stato convinto dalla proposta di rinnovamento (anche questa ormai parola vuotissima) dell’amato sindaco di Firenze: proprio ho sempre provato una ripulsa personale, istintiva, che mi ha portato a simpatizzare per converso per una classe dirigente di un partito che fino a quel momento non avevo mai sopportato e delle cui sorti in sostanza non mi ero mai interessato davvero. Questo mi porterebbe alla questione: perché Renzi mi sta sulle balle? La cosa merita un post apposito (siamo a quattro, se non sbaglio).
Insomma, Renzi mi stava così sulle balle che mi era diventato simpatico pure Dario Franceschini, figuratevi D’Alema. D’Alema che continua a stare sulle balle del 95% della popolazione italiana, che lo considera antipatico, infingardo, falso o veterocomunista e mediocre velista. Anche qui, però, mi ero convinto, gran parte del disprezzo è di origine irrazionale: anzi, è stato instillato nella mente della ggente dal malvagio circo mediatico berlusconiano, che ha identificato come nemico l’unico leader riconoscibile della sinistra italiana dal 1984 ad oggi, (no Veltroni non conta) che sì ha commesso sicuramente tanti errori di valutazione ma che dopotutto, ora che ha abbandonato la politica attiva, potrà essere padre nobile di una nuova generazione sinistrorsa che sta spuntando dalle nebbie e che potrà davvero essere classe dirigente di questo paese (non sopporto più queste 6 parole dette tutte insieme come un mantra, gesù).
(Come ero esaltato nel mese di febbraio.)
Una più attenta riflessione, e soprattutto questo focus irrazionale dettato dal mio insopprimibile antirenzismo (a metodologia delle scienze sociali mi hanno spiegato che si chiama “progetto metafisico di ricerca” ed è una cosa bella) mi ha dato una vera e propria epifania, che come tutte le epifanie concettualmente è una cosa di una banalità sconcertante ma potenzialmente capace di stravolgere completamente l’attenzione dell’osservatore.
E la risposta è: caro D’Alema, questa nomea te la sei costruita tutta tu. E la causa principale è proprio quella caratteristica che tu, il tuo inner-circle, i tuoi sparuti sostenitori considerate probabilmente come principale punto di forza, che dovrebbe in qualche modo “mantenervi in sella” al Partito (chiamiamolo solo così, d’ora in poi: “Partito”: è l’unico partito politico propriamente detto rimasto in Italia e sicuramente Democratico non lo è mai stato, perché il plebiscitarismo delle primarie democrazia non è).
Ovvero, il realismo politico.
Il dalemiano, visto come soggetto antropologico, è prima di tutto affascinato dal potere, che esso sia rappresentato da Josif Stalin o da Giulio Andreotti. In un machiavellismo sbilenco ignora le conseguenze, riguardo ad esso sospende il giudizio, lo considera come un valore in quanto tale, mentre quelli suoi propri sembrano non valere più. Questa sospensione di giudizio, appunto è il nocciolo del realismo.
Ed è così che si spiegano quelle tendenze, definibili, con il linguaggio semplificatore fattoidequotidiano, inciuciste verso il sistema di potere berlusconiano, più che verso il soggetto in sé (curiosamente è una cosa che hanno in comune con Renzi, anche se le motivazioni sono leggermente diverse e forse nel caso dei renziani pure più nobili), “abbiamo una banca?” (quando tutto sommato la banca ce l’avevano già), la confusione generale del quinquennio di governo ulivista a fine anni ‘90, un milione di altre considerazioni facilmente sublimabili nei 15 disgraziati che, alla quarta votazione, hanno scritto su quel foglietto D’Alema invece che Prodi.
Naturalmente semplifico molto, ma avete di certo afferrato la tendenza a cui faccio riferimento. Ed essere realisti prima di tutto, in questo disgraziato paese, ha portato a conseguenze devastanti: pensate alla Campania o alla Calabria, luoghi dove il compromesso socialdemocratico si manifesta solo sotto forma di eserciti di guardie forestali.
Una sinistra che, per non perdere, si piega alla realpolitik, semplicemente non è più sinistra. I progressisti sono essenzialmente perdenti, proprio perché si fissano obiettivi e paletti necessariamente audaci, magari gradualisti ma, appunto, progressivi. Tentano di tramutare una visione di un mondo che ancora non c’è: per questo “rifare l’Italia senza rifare gli italiani”, motto dei renziani di destra, è appunto una soluzione di destra, conservatrice, perché di forze atte a trasformare il pensiero degli italiani ce ne sono a iosa anche fuori dai partiti; anzi, una di queste partito lo è diventata nel 1994 e ha governato 12 anni. Restano idealisti, stanno sull’offensiva, mai sulla difensiva (il realismo dalemiano è indubbiamente realismo difensivo): e quando si cade nell’emergenza, laddove emerge la capacità di leadership ed è necessario trovare prima di tutto le soluzioni più praticabili, combatte finché può ma non ha problemi a farsi da parte, e a dire, davvero: ho perso.
E dire “ho perso” non come lo dice Renzi, che sotto l’autocelebrazione della sua sconfitta nasconde milioni di “se” e di responsabilità altrui: dire “ho perso” perché non sono riuscito a realizzare tutti i miei obiettivi, a difendere tutti gli interessi di cui volevo farmi carico.
Ma se ho perso così, ho perso davvero?
Diceva qualcuno su Berlusconi: quando vuole davvero ottenere qualcosa, diciamo ottenere 10, lui spara sempre 100. Sciocca l’opinione pubblica, spaventa le opposizioni, spacca la sua maggioranza, rischia di ottenere meno di zero. Ma a quel punto arrivano i moderatori, i negoziatori, gli incaricati di liberare l’ostaggio. Con gesto distensivo, geniale, offrono subito 50. Al che il terrorista Berlusconi non crede ai suoi occhi e fugge in aeroporto con l’incasso, e questi realisti non hanno neanche avuto la decenza di piazzare una pattuglia del Mossad sulla pista.
Berlusconi non è diventato l’imperatore di questo paese (ma lo ha mai voluto davvero?), ma in vent’anni è diventato da carcerato futuribile a cinquantesimo uomo più ricco del mondo e grande scopatore di minorenni. Lui ha vinto, tutto sommato.
E una forza politica che dovrebbe mirare a un mondo più eguale e più giusto, e dunque prima di tutto alla tutela dei più deboli (è una buona definizione di “sinistra”, almeno in bocca a uno di sinistra), consapevole che un mondo perfettamente egualitario non esiste né è auspicabile, non dovrebbe davvero implementare questo metodo?
Per puntare a grandi obiettivi si devono avere idee chiare. Non è che per puntare a obiettivi più limitate si devono annacquare i propri punti di riferimento. E bisogna avere il coraggio di affermare che ci sono certe tradizioni che, con la propria visione del mondo, semplicemente non sono compatibili. Non vuol dire che non siano compatibili con la democrazia, anzi: proprio per il bene della democrazia, non devono esprimersi in correnti a cui dare una classifica di gradimento, ma rappresentate nei luoghi dove le decisioni effettivamente si prendono.
In sostanza, un partito che come ideologia ha la “democrazia” (cit. Veltroni!), è destinato a piegarsi sempre, magari dietro a un finto unanimismo; a prendere le decisioni più importanti fuori tempo massimo, e fuori tempo massimo c’è solo l’emergenza, e nell’emergenza non si può che ragionare con gli strumenti del realismo.
E anche qui si possono fare molti distinguo. Ma gli strumenti implementati dalla sinistra italiana dalla caduta del muro in poi si sono rivelati in massima parte inadeguati. Più che inadeguati, subalterni.
Dunque, se con Renzi leader del principale partito di sinistra si perpetuerebbe la subalternità a un’ideologia estranea (nella fattispecie, ma è una mia considerazione, quella del centrodestra post-berlusconiano di Fini e di Monti, e mi sembra significativo che proprio nel pezzo di Cerasa si dica che Renzi stia preparando la prefazione del libro di due onorevoli pd vicini a Monti: quando troverete un dalemiano nel pdl fatemi un fischio), non avremmo nulla di particolarmente nuovo: la subalternità è stata una caratteristica distintiva della sinistra di governo degli ultimi 20 anni. E invece di includere tutto quel movimento, dotato di un soft-power significativo che ha dato il voto prima a Rifondazione, poi a Di Pietro, poi a Vendola, poco fa a Grillo, e domani chissà, un movimento che un partito di sinistra vero avrebbe inquadrato senza troppo sforzo, si è preferito perseguire una sterilissima politica dell’equilibrio, un po’ esterno, soprattutto interno, finché sotto la leadership dei Ds è stato portato un po’ tutto l’arco costituzionale.
Il risultato finale è stato costringere all’interno di uno stesso contenitore tre-quattro progetti politici paralleli, con poche cose in comune tra loro e ormai assolutamente inconciliabili: e il tutto, finalmente, è venuto a galla all’elezione del Presidente della Repubblica, due mesi fa. Mentre quello che dovrebbe essere il progetto cardine, quello socialdemocratico appunto, è lasciato a poche minoranze, peraltro che operano a titolo individuale (Barca) o quasi individuale (Civati e ormai Orfini), e salvo miracoli e improbabili convergenze (il problema di essere il Renzi di sinistra è di avere anche alcuni suoi difetti, nel caso di Civati la tendenza a tentennare troppo) sono destinati, al prossimo congresso, a un ruolo, relativamente, subalterno.
Ed è beffardo che ciò accada proprio in un momento in cui il futuro leader designato è in evidente fase di logoramento, scavalcato a destra dagli odiati compagni ex-democristiani, tenuto fuori dalle scelte di governo e spaventato che esso possa durare troppo. Lo avete visto Renzi a Piazzapulita? Ormai è “renzi”, non riesce più a cambiare passo, ripete spesso le stesse espressioni, fa battute poco divertenti. Potrebbe essere sconfitto anche nelle urne. Ma ci vuole un progetto chiaro, un disegno preciso. E a questo, a sinistra, da un bel po’ non è abituato più nessuno.
E come avete capito, individuo due principali responsabili: Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Renzi li voleva rottamare entrambi, è finito ad allearsi con entrambi: bravi tutti.
L’importante, però, è che anche chi sarà costretto alla subalternità continui a lavorare per liberarsene. Fissarsi grandi obiettivi, anche velleitari, lo abbiamo detto. Non sia mai che, in un sistema così volatile, con equilibri così fragili, non si riesca a uscirne in meno di quanto si pensa. E magari, finalmente, a convincere gli altri a diventare un po’ come noi.
Tanti bacini, Roberto Volpe [su twitter mi chiamo @afoxinspace, se ti piace quello che scrivo e sei donna puoi trovarmi lì]