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In Europa il socialismo democratico, come cita Willy Brandt dal programma di Bad Godesberg «ha le sue radici nell’etica cristiana, nell’umanesimo e nella filosofia classica». In Svezia questa tradizione è profondamente ancorata. Ma l’uomo vive in primo luogo i problemi di ogni giorno. Una idea astratta da sola non è sufficiente per un impegno. Si deve chiarire il nesso tra idee e problemi pratici. Si deve indicare come sia possibile risolverli. Un paese povero in via di sviluppo aspira alla sua autonomia dopo anni di dominazione coloniale. Qual è la ragione che può guadagnare il popolo alla causa della indipendenza nazionale? La possibilità concreta di costruire la società e liberarsi dalla povertà. Non è sufficiente dire: dobbiamo trasformare il sistema. Ogni sforzo in questa direzione deve collegarsi e fondarsi sulla soluzione di problemi concreti dei cittadini, sul loro bisogno di sicurezza, progresso e sviluppo. Il che si ricollega ai nostri sforzi di avere una visione complessiva dei problemi. Il socialismo richiede come ideologia politica e filosofica forte impegno intellettuale. Ma nello stesso tempo è anche straordinariamente pratico. Possiamo conseguire in larga misura il collegamento tra la difficile teoria e il lavoro concreto tramite il dibattito democratico. Il partito socialdemocratico svedese negli anni ‘30 è riuscito a tradurre questa visione complessiva in realtà per la soluzione della crisi dell’occupazione. In tal modo fu posta la base dell’azione del nostro partito per la trasformazione della società. La disoccupazione degli anni trenta non era solo un problema economico, ma anche una crisi della democrazia. La democrazia deve mostrare forza operativa in campo sociale. La concezione liberale della democrazia comportava al contrario una limitazione secondo la quale lo Stato democratico non poteva intervenire nell’economia di mercato neppure per garantire lavoro e sicurezza ai suoi cittadini. La soluzione che attuammo mostrò chiaramente che la democrazia aveva superata questo limite. Ora ci troviamo di nuovo di fronte alla stessa problematica. Le differenze di reddito minacciano di ingrandirsi. È in corso un enorme processo di trasferimento della popolazione e di concentrazione di capitale e uomini. Lavoratori perdono il loro posto di lavoro. Il nostro ambiente è minacciato da una crescente distruzione. Questi sono problemi essenziali della nostra vita di ogni giorno che possono generare facilmente un senso di insicurezza nel futuro. Nel caso che la democrazia non riesca a risolverli, esiste il pericolo dell’anarchia, il pericolo che si sviluppi una coscienza elitaria o che forze antidemocratiche si impadroniscono del potere. È necessario ravvivare e rinnovare la democrazia alla base. La struttura decisionale democratica corre il rischio di disgregarsi: in seguito alla trasformazione tecnologica, alla concentrazione economica, al rapido trasferimento della popolazione, alla lentezza burocratica. Lo sviluppo della democrazia industriale diventa la questione centrale. La democrazia anche a livello nazionale deve essere estesa a nuovi settori. Le forze tecniche ed economiche sono decisive per la configurazione del futuro. Se questo compito deve essere assunto dalla collettività allora queste forze devono essere democraticamente guidate e controllate. Il che significa che dobbiamo contare su una più ampia economia di piano. In Svezia attualmente stiamo elaborando un piano, lo ricordo come esempio, di come utilizzare nel suo complesso il territorio e la proprietà terriera. L’economia di mercato, secondo me, non può offrire alcuna soluzione a questi problemi, che sono di estrema importanza per lo sviluppo della società. Le decisioni da prendere non possono essere affidate all’economia privata. Non possiamo consentire che la corsa al profitto e la logica della concorrenza decidano sulla modificazione dell’ambiente, sulla sicurezza dei posti di lavoro o sullo sviluppo tecnico. La questione non è se vi debba essere economia di piano e più democrazia nella vita economica, ma come elaborare la prima ed organizzare la seconda.

Olof Palme, Stoccolma 1984

Profonde capacità analitiche

“The social insurance model is also inadequate in meeting the new risk structure because, almost by definition, it secures […] the stably employed — while excluding those at the fringes. It deepens, in other words, the divide between insiders and outsiders. In Europe, unemployment is concentrated among youth who often have no social entitlements. The tragedy of European youth is that it can easily face the double ‘failure’ of market and welfare state. In Southern Europe, the main solution remains familial. In Italy, among the unemployed 20–30year-olds, 90 per cent depend totally on parental support”.

G. Esping-Andersen, Why we need a new welfare state, 2002.


“Bamboccioni”.

T. Padoa-Schioppa, Ministro dell’Economia nel governo Prodi II, 2007.

Io sto con gli ariani

Non vedo l’ora che approvino il Jobs Act per fare domanda, essere subito assunto a random da chiunque, essere licenziato dopo tre anni, prima che scattino le tutele (ammesso che le tutele crescano così in fretta), scoprire che per il sussidio universale non ci stanno i fondi e poi poter finalmente emigrare in Germania, in Svezia o in Norvegia, assieme ai popoli ariani, mentre voi ve ne rimanete nei vostri cazzo di interminabili anni ’90.

Io sto con gli ariani. Che sono pure socialdemocratici (oppure son tedeschi, ma vabbè, questo lo sapevate già).

Ecco quanto spende l’Italia per il suo Servizio Pubblico per l’Impiego

Nel 2011, più o meno 396 milioni di euro.

In effetti forse i paesi scelti non sono dei migliori, in quanto influenzati dal modello stalinista fin dalla seconda guerra mondiale. Guardiamo a modelli più credibili, che so, l’ordoliberalismo tedesco o lo “small state” britannico:

Se ci può consolare, la strisciata sullo zero è la Grecia (prima della troika galleggiava intorno ai 30 milioni all’anno).