Archivio mensile:Maggio 2014

Matteo Renzi il keynesiano (?)

Ancora non sappiamo come Matteo Renzi abbia cambiato idea. Il perché ce lo possiamo immaginare, però: il fallimento globale della ricetta neoliberista è davanti agli occhi di tutti, specie dopo queste elezioni europee. Lo strano compromesso francese si è dimostrato un budino malfermo e insipido (pardon, François): un po’ di deficit spending senza rimettere in discussione il resto del programma economico non è una cura, anzi, visto il disastro conseguito dal Parti Socialist, non è neanche un palliativo.

Per uscire dalla crisi non servono palliativi, non basta passare dal neoliberismo a un neoliberismo spurio. Speriamo che questo Renzi l’abbia ben presente e non pensi che gli 80€ siano ciò che farà uscire l’Italia dalla crisi, anzi: a ben vedere il 40% preso dal Partito Democratico, gli 80€ non sono neanche stati ciò che ha determinato il suo successo. Cosa intendiamo dire? Riflettete sul risultato ottenuto dal PD nel Nord e soprattutto in Veneto: imprenditori e artigiani, fulcro della vittoria in quelle regioni, sono indifferenti alla riduzione dell’IRPEF. Il loro reddito è decisamente più alto della soglia decisa e soprattutto avrebbero preferito una riduzione dell’IRAP, opzione scartata nel dibattito di pochi mesi fa e l’ipotesi di una sua futura riduzione è rimasta molto fumosa persino durante questa campagna elettorale.

Di certo si è rivelata proficua la scelta di alzare la tassazione sulle rendite finanziarie. Non solo per l’assenza di conseguenze negative, grazie anche alla sciagurata separazione fra finanza ed economia reale, ma anche per lo scarsissimo impatto che questa imposta ha sui ceti medio e bassi. Ennesima dimostrazione che in Italia non ci sono così tante nonne con milioni di euro investiti in operazioni finanziarie, come alcuni sostenevano con grande coraggio e sprezzo del pericolo di perdere ogni credibilità.

Di certo non possiamo davvero dire che in questi pochi mesi di governo Renzi, per quanto densi, ci sia stata alcuna ricetta keynesiana. Le famose coperture degli 80€ sono arrivate anche da una riduzione della spesa pubblica, che per poco non si è abbattuta anche sulla Sanità. E il tetto agli stipendi dei manager pubblici è fuor di dubbio una mera manovra populistica, senza alcun disegno economico o di redistribuzione sociale dietro di essa. Ed è da vedere se questa dichiarazione d’intenti si tramuterà nel famoso cambio di passo tanto auspicato, almeno da quelli della nostra area di pensiero. Intanto ci rallegriamo che, dopo due anni di primarie passate a sostenere la bellezza del neoliberismo e della deregulation, a parlare della bruttezza della spesa pubblica, dell’inefficienza del welfare, della distorsione provocata dalla tassazione progressiva sul libero mercato, mentre il Paese andava allo sfascio e quel poco di welfare residuale ancora in campo faticava a contenere il disastro sociale, il leader tanto sostenuto dai nostri cari amici libbberali, da Ateniesi e da FutureDem, oggi ci dia ragione.

C’abbiamo sempre avuto ragione. Ora è talmente evidente che ce la danno anche i più improbabili.

Speriamo solo di non subire lo stesso voltafaccia subito dai nostri avversari: non tanto per questioni di amor proprio, ché noi siamo abituati pure a peggio, quanto per la situazione sociale, ancora esplosiva, ed economica, ancora nera, del Paese. Insomma, se oggi riuscite a vedere la luce in fondo al tunnel, meglio che chiamiate al più presto l’118.

PS: un’altra buona notizia. Draghi ha annunciato che lavorerà per rialzare l’inflazione al 2%, quindi operando sui mercati immettendo liquidità. Draghi ha persino dichiarato che alcuni Paesi dell’Eurozona “hanno introdotto grande flessibilità ma solo per i giovani, rendendoli i primi ad essere licenziati quando la crisi ha colpito” e che questi Paesi sono stati colpiti da un’elevata disoccupazione giovanile anche per “un sistema educativo in fondo alla classifica dell’Ocse”. Draghi è sostanzialmente un tecnico eppure, pur mantenendosi al momento solo sul piano della speculazione e dell’annuncio, si spinge molto più in là di quanto fanno i politici di molti Paesi. I tempi stanno cambiando, purtroppo non sull’onda della ragione, ma sull’onda dell’obiettiva stasi europea, aggravati dalle tensioni sociali e dal successo dei peggiori partiti possibili in Paesi comunque più floridi del nostro.

La flessibilità non fa crescere la produttività

La flessibilità non fa crescere la produttività

Ci stupiamo davvero?

Capita spesso di leggere che le cosiddette “riforme strutturali“, tra cui quella del mercato del lavoro, siano necessarie per accrescere la produttività stagnante delle nostre imprese. In base a questo assunto e all’idea (facilmente falsificabile) che maggiore flessibilità porti a maggiore occupazione, negli anni si sono susseguite diverse modifiche del diritto del lavoro, sia da parte di governi di centrosinistra che di centrodestra.

Il risultato è che per il nostro Paese l’indice di protezione del lavoro (EPL), calcolato dall’OCSE, è precipitato da 3,57 (prima del “pacchetto Treu“) a 1,82 nel 2003. Nel 2008, ultimo anno di rilevazione, è risalito appena ad 1,89. Come ammette la stessa OCSE, siamo il paese che ha liberalizzato di più il mercato del lavororelativamente alla posizione abbastanza rigida del passato.

Eppure se si giudicano i risultati della flessibilità, sembrano essere piuttosto deludenti. Non solo la produttività non è aumentata, ma la sua crescita è rallentata fino a diventare sostanzialmente nulla nell’ultimo decennio (si veda il grafico su riportato). Non necessariamente questo risultato negativo deve attribuirsi alla crescente flessibilità. Tuttavia i dati sembrano dire con chiarezza che la liberalizzazione del mercato del lavoro non ha prodotto effetti positivi misurabili sulla produttività.

Nonostante ciò, la convinzione che maggiore flessibilità porti a maggiore produttività è rintracciabile nel dibattito pubblico, quasi che un lavoratore precario sia più propenso a “impegnarsi” per il timore di perdere il posto di lavoro. Se ciò non bastasse, in un recente documento della stessa OCSE si afferma che la “dualità” tra lavoratori garantiti e non garantiti porta a inefficienze nella distribuzione delle risorse umane disponibili. Non si capisce tuttavia come rendere precario anche l’attuale “posto fisso” possa dare risultati migliori della precarietà sinora introdotta, così pesantemente, nel mercato del lavoro italiano.

Dichiarazione globale degli studenti per il pluralismo in economia

Da qui: http://www.rethinkecon.it/manifesto-dichiarazione-globale-degli-studenti-per-il-pluralismo-in-economia/

Negli ultimi sette anni, con gli effetti della crisi finanziaria sotto gli occhi di tutti, un’altra crisi economica, con implicazioni profonde per tutti noi, è passata quasi inosservata: la crisi teorica dell’economia e del suo stesso insegnamento. La stagnazione dell’offerta didattica e di una pedagogia ridotta e riduttiva è durata decenni, nonostante ripetuti sforzi, da parte degli studenti, volti a cambiare questa situazione. Ora, nel pieno della crisi finanziaria globale, tali iniziative studentesche hanno trovato nuova linfa ed una rinnovata energia in diversi paesi tra cui Argentina, Austria, Brasile, Canada, Cile, Danimarca, Francia, Germania, India, Inghilterra, Israele, Italia, Nuova Zelanda, Scozia e Stati Uniti. Cosa più importante, gli studenti coinvolti in queste iniziative hanno trovato una causa comune nella promozione di un vero insegnamento plurale dell’economia. All’interno delle università il pluralismo significherà una più ampia varietà teorica e metodologica nei nostri libri di testo, ed una formazione più solida e reattiva. Fuori dalle università, invece, il pluralismo comporterà una più ampia gamma di opzioni nell’“inventario” degli strumenti dei nostri governi, per migliorarne la capacità di trovare soluzioni collettive ai problemi globali dell’economia, siano essi urgenti o più a lungo termine.

Il pluralismo cerca inoltre di costruire dei legami più forti tra questi due mondi e di integrare sempre meglio le teorie e gli strumenti acquisiti nell’ambito accademico, con le sfide morali, politiche, ambientali, culturali, nonché con molte altre di estrema complessità che caratterizzano il XXI secolo. Nessuna scuola di pensiero gode di un monopolio delle soluzioni a queste sfide, e data l’immensità delle conseguenze nel mondo reale del loro lavoro, gli economisti hanno la responsabilità di assicurare che la loro professione sia dotata di una diversificazione interna che le permetta di affrontare una simile complessità esteriore.

Il pluralismo teorico enfatizza il bisogno di allargare il raggio di scuole di pensiero rappresentate nei corsi universitari. In questo contesto è importante notare che non obiettiamo contro nessuna tradizione economica in particolare. Il pluralismo non è una scelta di campo, ma riguarda il sano incoraggiamento a un dibattito teorico che non può che rafforzare la professione dell’economista nella sua interezza. Una formazione economica onnicomprensiva è finalizzata a promuovere un’esposizione bilanciata alle varie prospettive teoriche che vanno dai più comuni insegnamenti dell’approccio neoclassico fino a quelle tradizioni largamente escluse come quelle classica, post-keynesiana, istituzionale, ambientalista, femminista, marxista e austriaca, per citarne qualcuna. Quando la maggior parte degli studenti di economia si laurea senza mai incontrare una simile varietà di prospettive durante gli studi, allora si capisce che tale percorso educativo si rivela insufficiente e soprattutto inefficiente. Basta immaginare un corso di laurea in storia dell’arte focalizzato solo sull’impressionismo, oppure un corso di scienze politiche che si concentri solo sul socialismo, e si potrà iniziare ad apprezzare i limiti di un tipico corso di economia.

Il pluralismo metodologico impone l’impiego di un ampio ed eterogeneo insieme di strumenti nell’analisi delle questioni economiche. Con ciò non si vuole sottostimare la necessità del rigore analitico-matematico e quantitativo-statistico. Ma troppo spesso gli studenti acquisiscono acriticamente le suddette competenze “tecniche” evitando le più elementari riflessioni epistemologiche: come e perché tali strumenti vadano utilizzati, la neutralità delle assunzioni e l’applicabilità dei risultati. Inoltre, esistono importanti aspetti economici impossibili da indagare esclusivamente per mezzo dell’approccio quantitativo: ad esempio, le istituzioni, le culture e la storia rappresentano elementi determinanti dei meccanismi e processi economici e, come tali, dovrebbero essere parte integrante dei piani di studio. Ciononostante, la grande maggioranza degli studenti non frequenta nemmeno un singolo corso di “metodi qualitativi” durante il proprio percorso formativo.

Il pluralismo interdisciplinare sviluppa ulteriormente il discorso metodologico, riconoscendo che l’economia è più efficace quando integrata con altre scienze sociali ed umanistiche. Così come le politiche economiche non prescindono dale lezioni derivanti dalla politica, dall’etica, dalla psicologia, dalla storia, dalla sociologia e dall’ecologia, nemmeno l’insegnamento dell’economia dovrebbe prescindere da questi stessi ambiti. L’apprendimento interdisciplinare è vitale per fornire agli economisti la profondità cognitiva necessaria ad apprezzare le numerose implicazioni che le loro idee comportano per lo sviluppo globale.

Mentre gli approcci per implementare queste forme di pluralismo varieranno di luogo in luogo, le idee generali per il loro sviluppo dovrebbero includere le due seguenti linee guida:

  • Verso un pluralismo teorico e metodologico: dare la priorità a docenti e ricercatori che possono essere fonte di diversità teorica nei programmi economici; ideare testi e altri strumenti di insegnamento a supporto di un’offerta formativa pluralista; dare la priorità nei giornali professionali a lavori pluralisti.
  • Verso un pluralismo interdisciplinare: formalizzare le collaborazioni tra dipartimenti di scienze sociali e di studi umanistici o stabilire dipartimenti speciali che possano sovraintendere programmi che combinino l’economia e gli altri campi.

Il progresso su questi fronti richiede non solo la costruzione di un nuovo consenso attorno al pluralismo, ma anche che una varietà di altre sfide sia messa in evidenza, inclusa la ricerca di professori con una formazione pluralistica e di fondi per sostenere le iniziative sopra elencate. Di conseguenza, se speriamo di dotare la professione dell’economista di un profilo pluralista in un arco di tempo che si accordi con l’urgenza della crisi globale, allora dobbiamo iniziare a connetterci, ad essere coordinati e creativi nella ricerca di nuove soluzioni. Con questo obbiettivo in mente i nostri network studenteschi hanno iniziato a premere per un cambiamento, e a superare le lacune educative organizzando seminari, conferenze e altre iniziative creative.

Abbiamo bisogno di studenti, professori, ricercatori e sostenitori da tutto il mondo che si uniscano a noi per formare la “massa critica” necessaria al cambiamento. Visitate il sito isipe.net per capire come supportare la nostra causa. Come la grande crisi finanziaria ci ha ricordato, nell’economia le idee vanno ben oltre le aule universitarie, e raggiungono ogni angolo della nostra vita. La spinta per il pluralismo non è semplicemente uno sforzo per rafforzare la professione dell’economista, ma uno sforzo per rafforzare le fondamenta stesse del benessere umano e della nostra abilità collettiva di prosperare.